Certo che un’ominide cieco è proprio strano che mi sia venuto in mente, ma è lei che mi interessa, ecco, forse voglio dire che l’altruismo e la cura sono femminili, ma in fondo non è giusto neanche questo, Urk pensava di portare a lei il cibo che dà forza, anche questo è un riflesso di cura, comunque, visto che la piccola zanzara tigre per ora non sembra all’attacco, continuiamo a immaginare. Gli occhi spenti di Urk lacrimavano e lui era sgomento, ma i capelli della femmina e il suo odore le accarezzavano il viso, pensò che forse non tutto era ancora perduto, si appoggiò a lei e si alzò,- verso la grande luce – disse nel suo linguaggio incerto e gutturale, ma lei capì e lo guidò, così insieme si avviarono verso la grande acqua. Urk ne sentiva l’odore umido, si accorse di sentire gli odori più intensamente di prima.
Aveva urlato per ore. Nessuno aveva risposto. Sapeva che prima o poi sarebbe rimasto solo. Aveva visto andar via tutti quelli della caverna. Ma perché era andata via anche la luce? Gronko piangeva. Calde gocce le rigavano le guance. A tentoni ritrovò la sua cuccia. Si infilò tremante sotto le pelli e iniziò ad aspettare che arrivasse il grande sonno.
Non è cambiato niente. Ho chiuso gli occhi e li ho riaperti, li ho bagnati, ho pianto, ho sperato che fosse una notte tanto buia da non avere bianco di stelle e di luna o rosso di vulcano, o nero di alberi. Non è cambiato niente: questa notte è buia, la più buia di tutte quelle che ho visto prima. È notte solo per me. Perché sento che non è notte davvero: c’è il calore del giorno, ci sono i suoni. Per me sono lontani, ora. Posso stare qui nella mia casa e fare finta che sia notte. Solo qui conosco ogni pietra e ogni angolo. Sotto la pelle dell’orso conosco tutto. Resterò qui.
Quella mattina Mosi non si alzò dal suo giaciglio come era solito fare e rimase sotto la sua stuoia di pelle di tigre. Continuò a piangere nella speranza che le lacrime lavassero via i residui di veleno, ma fino a quel momento non era successo niente. Buio. Gli uomini e le donne della tribù lo andavano a trovare nel tentativo di consolarlo, ma non appena Mosi chiedeva quando sarebbe passato l'effetto del veleno, nessuno aveva il coraggio di dirgli che quel veleno era talmente potente da impedire la guarigione e che nessuna pianta medicinale, fino ad allora, era servita da antidoto. Nonostante fosse ancora un bambino comunque, Mosi capì che le mancate risposte non significavano niente di buono. Quel silenzio gli sembrò un rumore ancora più assordante di quello che proveniva periodicamente dal vulcano e pian piano in lui si fece strada la consapevolezza che il buio lo avrebbe accompagnato per sempre
Usci'strisciando dalla caverna,aveva bruscamente allontanato a sua volta il braccio di Orea,sembrava avere bisogno di aria e di solitudine.Non fece molta strada,si lascio' cadere appena fuori dalla caverna,aveva portato con se' una pelle di tigre con cui avvolse il corpo e le lacrime
Era in piedi, ora, Ghughu. Braccia tese in avanti e occhi bagnati di lacrime. Inciampava, cadeva, urlava e si rialzava. Non riusciva a riconoscere un punto familiare, un rumore già sentito. Chiamava forte i suoi genitori, ma l'unico a rispondergli era il sibilo del vento tra le fronde. Sbatteva le braccia contro le rocce, i piedi sanguinavano e per ogni caduta Ghghu emetteva un grido straziato che rimbombava nelle sue orecchie e scacciava gli uccelli dormienti dai rami. Era cieco, era solo, aveva freddo e fame. Continuando a camminare a tentoni, scovò un antro fra delle rocce, vi si accovacciò, incassò la testo fra le spalle magre e pianse tutte le lacrime che aveva.
Rannicchiato tra le rocce; così passò il giorno seguente. Gli occhi sbarrati alla ricerca della luce che non veniva. Sentiva solo il calore del sole sulla pelle, ma non ne percepiva nessun colore. Non mangiò, forse aspettando di essere mangiato. Aspettando la fine della sua esistenza ormai vuota e senza nessuno accanto a lui. La sua tribù l’aveva allontanato. Così, semplicemente e senza giustificazione. Non era necessario dargliene. Aveva superato l’infanzia, non aveva più il diritto di essere sostentato. Doveva sostentare gli altri, ma da cieco non poteva farlo. Così fu semplicemente scartato, isolato. Non mangiò ma bevve tanto. Bevve le sue lacrime, che sgorgavano calde come la lava del vulcano, mentre scivolavano sulle sue guance, ormai arrossate dalla calda luce che non poteva più percepire.
Certo che un’ominide cieco è proprio strano che mi sia venuto in mente, ma è lei che mi interessa, ecco, forse voglio dire che l’altruismo e la cura sono femminili, ma in fondo non è giusto neanche questo, Urk pensava di portare a lei il cibo che dà forza, anche questo è un riflesso di cura, comunque, visto che la piccola zanzara tigre per ora non sembra all’attacco, continuiamo a immaginare.
RispondiEliminaGli occhi spenti di Urk lacrimavano e lui era sgomento, ma i capelli della femmina e il suo odore le accarezzavano il viso, pensò che forse non tutto era ancora perduto, si appoggiò a lei e si alzò,- verso la grande luce – disse nel suo linguaggio incerto e gutturale, ma lei capì e lo guidò, così insieme si avviarono verso la grande acqua. Urk ne sentiva l’odore umido, si accorse di sentire gli odori più intensamente di prima.
Aveva urlato per ore. Nessuno aveva risposto. Sapeva che prima o poi sarebbe rimasto solo. Aveva visto andar via tutti quelli della caverna. Ma perché era andata via anche la luce?
RispondiEliminaGronko piangeva. Calde gocce le rigavano le guance. A tentoni ritrovò la sua cuccia. Si infilò tremante sotto le pelli e iniziò ad aspettare che arrivasse il grande sonno.
Non è cambiato niente. Ho chiuso gli occhi e li ho riaperti, li ho bagnati, ho pianto, ho sperato che fosse una notte tanto buia da non avere bianco di stelle e di luna o rosso di vulcano, o nero di alberi. Non è cambiato niente: questa notte è buia, la più buia di tutte quelle che ho visto prima. È notte solo per me. Perché sento che non è notte davvero: c’è il calore del giorno, ci sono i suoni. Per me sono lontani, ora. Posso stare qui nella mia casa e fare finta che sia notte. Solo qui conosco ogni pietra e ogni angolo. Sotto la pelle dell’orso conosco tutto. Resterò qui.
RispondiEliminaQuella mattina Mosi non si alzò dal suo giaciglio come era solito fare e rimase sotto la sua stuoia di pelle di tigre.
RispondiEliminaContinuò a piangere nella speranza che le lacrime lavassero via i residui di veleno, ma fino a quel momento non era successo niente. Buio. Gli uomini e le donne della tribù lo andavano a trovare nel tentativo di consolarlo, ma non appena Mosi chiedeva quando sarebbe passato l'effetto del veleno, nessuno aveva il coraggio di dirgli che quel veleno era talmente potente da impedire la guarigione e che nessuna pianta medicinale, fino ad allora, era servita da antidoto. Nonostante fosse ancora un bambino comunque, Mosi capì che le mancate risposte non significavano niente di buono. Quel silenzio gli sembrò un rumore ancora più assordante di quello che proveniva periodicamente dal vulcano e pian piano in lui si fece strada la consapevolezza che il buio lo avrebbe accompagnato per sempre
Usci'strisciando dalla caverna,aveva bruscamente allontanato a sua volta il braccio di Orea,sembrava avere bisogno di aria e di solitudine.Non fece molta strada,si lascio' cadere appena fuori dalla caverna,aveva portato con se' una pelle di tigre con cui avvolse il corpo e le lacrime
RispondiEliminaEra in piedi, ora, Ghughu.
RispondiEliminaBraccia tese in avanti e occhi bagnati di lacrime. Inciampava, cadeva, urlava e si rialzava.
Non riusciva a riconoscere un punto familiare, un rumore già sentito. Chiamava forte i suoi genitori, ma l'unico a rispondergli era il sibilo del vento tra le fronde.
Sbatteva le braccia contro le rocce, i piedi sanguinavano e per ogni caduta Ghghu emetteva un grido straziato che rimbombava nelle sue orecchie e scacciava gli uccelli dormienti dai rami.
Era cieco, era solo, aveva freddo e fame.
Continuando a camminare a tentoni, scovò un antro fra delle rocce, vi si accovacciò, incassò la testo fra le spalle magre e pianse tutte le lacrime che aveva.
Rannicchiato tra le rocce; così passò il giorno seguente. Gli occhi sbarrati alla ricerca della luce che non veniva. Sentiva solo il calore del sole sulla pelle, ma non ne percepiva nessun colore. Non mangiò, forse aspettando di essere mangiato. Aspettando la fine della sua esistenza ormai vuota e senza nessuno accanto a lui.
RispondiEliminaLa sua tribù l’aveva allontanato. Così, semplicemente e senza giustificazione. Non era necessario dargliene. Aveva superato l’infanzia, non aveva più il diritto di essere sostentato. Doveva sostentare gli altri, ma da cieco non poteva farlo. Così fu semplicemente scartato, isolato.
Non mangiò ma bevve tanto. Bevve le sue lacrime, che sgorgavano calde come la lava del vulcano, mentre scivolavano sulle sue guance, ormai arrossate dalla calda luce che non poteva più percepire.