Era una bella giornata, la prima da una settimana, di quelle che Palermo sa regalare anche in febbraio, il sole scaldava e io, risalendo da via Roma, me la stavo godendo quando uno schiamazzo di gente cominciò a scendere da via Cavour, mi tagliò la strada e cominciò a disperdersi, in parte risalendo e in parte discendendo la strada verso S. Domenico. Ero ormai giunto all’incrocio e guardando verso sinistra in mezzo alla folla urlante che scendeva vidi gente di tutti i tipi che sciamava verso il basso, c’erano bambini, ambulanti, ma anche un carabiniere in alta uniforme, uno dei due che fa la guardia alla banca d’Italia, pensai, era o sembrava il più veloce, correva tenendosi la sciaboletta piatta, perché non gli sbattesse addosso, non capivo da cosa fuggissero, d’un tratto mi accorsi di una forma verde che usciva dal portone della banca, si ergeva sulla folla con delle assurde fauci spalancate, man mano che usciva in strada si alzava sempre più, si ergeva sulla folla e si! Cresceva, cresceva, diventava sempre più grande, poi, di colpo, con un suono sordo, una specie di flop ad alta intensità scoppiò inondando di una marea verde la folla che fuggiva, una specie di vomito che mi mancò per un pelo e il verme non c’era più. La gente cominciò a girarsi a rallentare, un silenzio strano sostituì lo schiamazzo di prima un rallenty cinematografico. Pensai, non ci crederà nessuno quando lo racconterò .
Benché fossi anch'io preso dall'agitazione, una cosa l'avevo notata: mentre tutti scappavano, c'erano due uomini che si avvicinavano allo strano bestione. Avevano un turbante, sembravano indiani. Uno di loro aveva dei lunghi capelli biondi, però. E due occhi che non avevo mai visto prima. Fermi, da re. Di chi sa qualcosa in più e per questo non potrà mai avere paura.
Rajani e il suo fedele servitore Padmaj se ne andarono con fare che non ammetteva repliche da parte dei contadini. Quell'anno i raccolti di riso e grano erano stati distrutti dall'inondazione del fiume Ravi e i contadini non potevano reintegrare le scorte del maharajà Rajani. D'altra parte non era colpa loro se le piogge erano cadute più abbondanti, il fiume si era ingrossato e staripando, aveva sommerso tutto rendendo le piante inutilizzabili. Ma Rajani era un principe capriccioso, già il fatto che si tingesse i capelli biondi come se fosse un occidentale la diceva lunga sulla sua stravaganza, e doveva trovare un capro espiatorio per quanto era successo. Lui non avrebbe avuto scorte sufficienti per i suoi opulenti festini, ma i contadini non avrebbero avuto nemmeno il minimo indispensabile per la sopravvivenza. Come se non fossero bastate le inondazioni, alcuni raccolti che erano stati salvati con grande fatica dall'acqua, erano stati poi danneggiati ulteriormente dall'eccessiva proliferazione del bruco verde delle risaie che si era nutrito delle giovani piante, una vera catastrofe. Quell'inverno avrebbero dovuto tirare la cinghia, pensava con desolazione uno dei contadini; di certo non si sarebbe potuto permettere di comprare un berretto nuovo per suo figlio e probabilmente quello verde che il bambino si era guadagnato lavorando nei campi, sarebbe stato venduto per racimolare qualche spicciolo. L'improvvisa carestia inoltre alimentò la diffusione dei briganti, persone disperate disposte a tutto, anche a uccidere per rubare qualcosa da mangiare. E avevano poco da fare i gendarmi con i loro fucili sotto braccio per ripristinare una parvenza di ordine; molto spesso vendevano anche le proprie armi ai briganti stessi, favorendo quindi le loro scorribande. Il maharajà Rajani, invece di intervenire per risolvere i problemi dei contadini e dei briganti, stava rinchiuso nell'enorme e lussuoso palazzo della sua famiglia dove poteva essere sicuro che non gli sarebbe mancato nulla, se non l'affetto e la stima del suo popolo
@Salvatore, Yorick e Pirsimona (E TUTTI): le vostre storie sono molto belle. Se ne avete voglia, continuate pure, alternandovi, o aggiungendo altri frammenti, senza attendere necessariamente il contributo di altri scrittori. GRAZIE!
Provo a raccontarlo, ma non sono certo di riuscire a portare alla memoria tutti i particolari... Le immagini sono avvolte da piccole gocce di nebbia che confondono i contorni delle cose e dei ricordi. Tutto inizia tanti anni fa. Mio padre è un povero contadino che ogni giorno si spezza la schiena nei campi. La sua vita è scandita dalla ritualità della semina. Non credo ci siano gioie rilevanti nella sua esistenza. Rilevanti dolori però, sì. La morte di mia madre mentre mi dava alla luce, per esempio, gli ha fatto perdere il colorito, il sorriso, la luce propria di un paio di occhi curiosi e intelligenti. Io sono biondo, somiglio tutto a lei, dice mio padre. Della mia infanzia ricordo le mura marce di casa e il pane con latte che mangiavo alla sera. Quando fui abbastanza grande da tenere in mano un sacco di grano, mio padre mi mandò a fare l'apprendista da un fabbro. Non era famoso, nè tantomeno ricco, ma era l'unico che aveva acconsentito a prendermi con sè. Non mi piaceva, ma ci andai ugualmente. Mai avrei dato un dispiacere a mio padre. Il fabbro era un omone grande e grosso, aveva un naso enorme che gli stravolgeva il volto, peli ispidi e neri sul volto, capelli sempre nascosti da un grande cappello a falde larghe. Tutto in lui incuteva timore, c’era qualcosa di cattivo in quelle due fessure piazzate sotto la fronte che mi guardavano con estraneità. A novembre mi trasferii nella sua bottega, a dicembre volevo già scappare. A mio padre non dicevo nulla, ma quell’energumeno somigliava sempre di più ad uno di quei mostri verdi che sognavo da bambino quando la sera arrivava il momento di spegnere la lampada ad olio. Era cattivo con me. Lavoravo più di quanto dovessi fare, e la sera, nonostante fossi stremato, mi costringeva a star sveglio fin quando lui non cadeva addormentato. Sapevo che quel burbero scontroso attaccava briga con tutti, ma mai avrei immaginato che qualcuno potesse ucciderlo. Così una mattina di marzo tornai alla bottega dopo avere fatto alcune consegne, e lo trovai stramazzato al suolo, immobile e coperto di sangue.
Un urlo si strozzò in gola. Mi tappai subito la bocca con entrambe le mani. Lo guardai immobile e indeciso sul da farsi, non mi ero accorto che entrando avevo lasciato la porta aperta su quella vista orrenda. Passò un carabiniere, affacciò la testa oltre l’uscio, vide ciò che io stavo ancora guardando, e con un balzo fu dentro la bottega. Io fui più veloce però. Ancora oggi non so dire perché scappai, ma mi precipitai fuori dalla finestra mentre quello urlava di star fermo, di tornare indietro. Non so quanto vagai per le strade della città. Non volevo tornare indietro e non volevo andare neppure da mio padre: pensavo che lo avrei messo nei guai. Chissà cosa gli avevano raccontato… Non volevo neanche pensarci. Vissi di ciò che trovavo per strada e vagabondai senza meta diversi giorni prima di arrivare al porto. Il mare. Era bellissimo. Grande, talmente grande da sembrare infinito. Ero così stanco che mi fermai sul molo, trovai un angolo riparato e mi addormentai.
Non so quante ore restai incosciente, ma so che al risveglio mi trovai immerso in una penombra arancione… Avvolto da un brusio straniero e da profumi sconosciuti. Qualcuno si accorse del mio risveglio perché improvvisamente vi fu silenzio e vidi due ombre avvicinarsi . Un uomo avvolto in una tunica porpora ed un altro fasciato da un mantello blu si avvicinarono rivolgendomi uno sguardo di amichevole compassione. Fui scosso da un tremito di paura. Mai avevo visto due uomini di carnagione tanto scura. In paese avevano parlato di stranieri invasori, crudeli, che mozzavano le teste con una facilità che non poteva essere proppria degli uomini rimorati di Dio. Iniziai a tremare ed urlai così forte che tutti, nella stanza, premettero le mani sulle orecchie. Tutti tranne Amil e Talish che continuarono a guardarmi coi loro occhi imperturbabili. - Non temere, non vogliamo farti del male, da oggi noi penseremo a te.- -COME???? PERCHE’???? Chi siete??? Che volete? Le conosco le storie su di voi… Cosa volete farmi??? Voglio andare via di qui!!!- Provai a muovermi, ma ero talmente stanco che non riuscii ad imporre il mio volere alle gambe. Fui preso dallo sconforto. Eravamo in viaggio, dove stavamo andando? -Lo scoprirai- dissero. -Adesso riposa. – Mi rassegnai. A meno che non avessi deciso di trascinarmi sul ponte e buttarmi in mare, mai sarei sfuggito a quei due. Evidentemente ero davvero molto stanco, perché dormii ancora un giorno intero, come poi mi dissero. Chissà dove stavamo andando, chissà cosa avrebbero fatto di me. Viaggiammo in silenzio, studiandoci reciprocamente… Forse non erano così cattivi come pensavo.
Giorno dopo giorno sentivo tornare le forze. Iniziai a smettere di avere paura. Mi avevano proposto di impegnare le giornate imparando a leggere e a contare, e l’idea aveva stuzzicato la mia curiosità. E poi, dovevo pur impegnare quelle interminabili giornate in nave! Oggi giorno mi insegnavano una cosa nuova: ero sveglio e attento, apprendevo in fretta il significato di quelle parole scritte sui libri e in poche settimane riuscii a fare addizioni e sottrazioni. Mi raccontavano del loro paese, di animali mai visti, di cose che pensavo neppure esistessero. Era bello parlare con loro, ma pensavo sempre a mio padre. Chissà cosa faceva, come stava… Chissà cosa pensava di me. Una mattina uscii sul ponte: guardavo la schiuma bianca lasciata dalla nave e mi perdevo nei ricordi. Seguendo la loro scia mi voltai e mi accorsi della presenza di Amil. Non lo avevo sentito arrivare. Mi incuriosiva molto, Amil. Non toglieva mai il turbante blu da cui scivolavano biondi i suoi capelli. Era sempre silenzioso, sembrava fluttuasse sulle nuvole che ogni giorno si fermava a contemplare. Lo scrutai a lungo, indeciso sul da farsi. Risolse lui il mio dubbio: si voltò, mi sorrise mostrandomi i suoi denti madreperla e andò via. Arrivammo dopo molte settimane. Scendemmo e fummo accolti con feste ed onori. Fui condotto in un palazzo sontuoso, pieno di ninnoli che brillavano colpiti dai raggi del sole. Restai abbagliato da tutta quella luce.
Mi mostrarono la mia nuova casa: avrei vissuto con Janira, la sorella di Amil. Ogni giorno Amil e Talish mi insegnavano qualcosa di nuovo. Diventavo ogni giorno più forte e sapiente. Non c’era più traccia della paura provata la prima volta che vidi Amil e Talish. Non erano cattivi, non volevano farmi del male. Si dedicavano a me con cura e abnegazione senza chiedere nulla in cambio. Ogni giorno mi regalavano un affetto che pensavo di non meritare. Una sera, davanti una tazza di the nero, chiesi a Janira perché avessero scelto me. PERCHE’? Lei rispose che non c’era un motivo. Mi avevano trovato sul molo: abbandonato, solo, col volto rigato di lacrime. Semplicemente non potevano lasciare un bambino morire così, di freddo, solitudine e disperazione. Avevano avuto pietà di me. E mi avevano salvato da chissà quale avvenire. Avevo tutto, ma non ero felice. Le mie notti erano agitate da mostri verdi che mi tormentavano e, nonostante nascondessi la testa sotto quel cuscino che odorava di spezie, mi sembrava di sentire i lamenti strazianti di mio padre che stava morendo di dispiacere per la mia scomparsa. Tentavo di nascondere a Amil e Talish il mio malessere, ma loro avevano capito tutto. Capivano sempre tutto, loro. Così una sera mi chiamarono nella stanza dei tappeti e mi dissero che mi avrebbero riportato a casa. Mi colsero di sorpresa e nel mio animo presero a battagliare gioia e dolore. Vinse il desiderio di riabbracciare mio padre. Avevo un disperato desiderio di sentire ancora cingermi dalle sue braccia. Certo, non avrebbe più ritrovato le esili spalle che stringeva quando alla sera sentivo freddo, adesso ero un ragazzo robusto e forte, ma ero certa che ci saremmo riconosciuti.
Feci i bagagli. Amil, Talish e Janira organizzarono una festa in mio onore. Mangiammo e bevemmo tra le risate e le lacrime. Quando tutti andarono via i miei amici, la mia famiglia per quegli anni, mi strinsero forte e pronunciarono un ADDIO in un sospiro. Piansi tutta la notte, e la mattina successiva non trovai nessuno in casa. C’era solo un uomo che, come scoprii presto, avrebbe dovuto accompagnarmi al porto. L’autista mi salutò con una stretta di mano, abbassò lo sguardo e andò via. Io salii e viaggiai per così tanti giorni che neppure li contai. Lessi, ricordai e pensai. Mai avrei dimenticato Amil e Talish. Mi avevano da una salvato, forse anche da me stesso. Avrebbero avuto sempre un posto speciale nel mio cuore.
Arrivai in una mattina grigia e ventosa, sbarcai con una valigia che odorava ancora di profumi lontani. Niente sembrava essere cambiato. Forse in paese il tempo si era fermato. Per qualche minuto ho sperato davvero che fosse così… E se mio padre fosse.. NO. Non dovevo neppure pensarci. Iniziai a camminare verso quella che un tempo era la mia casa. La trovai uguale. Forse con più crepe, ma era lei. Bussai. Nulla. Bussai ancora più forte. Nulla. Lasciai andare la valigia e presi a battere entrambi i palmi sul legno ormai marcio. Sentii dei passi trascinarsi lentamente verso la porta che si aprì improvvisamente. Dietro apparve un viso scavato dalla tristezza e dal dolore. Non so cosa accadde, forse mio padre mi riconobbe prima che io potessi muovermi, perché in un attimo mi ritrovai stretto a lui, sciolti entrambi in un lungo pianto consolatorio. Ci vollero molti giorni perché gli raccontassi tutto. Lui mi disse che poco dopo la mia scomparsa avevano trovato l’assassino del fabbro, e che lui mai aveva smesso di cercarmi, che a volte, nel cuore della notte, sentiva il mio pianto di nostalgia. Oggi mio padre non c’è più. Io ricordo quei anni in maniera confusa, a volte penso sia stato tutto un sogno, altre credo di inserire dettagli di fantasia nei miei ricordi. Non ho mai più visto Amil, Tashir e Jamira. Stasera andrò a dormire presto. Domani sarà un lungo giorno. Parto. Vado in India. Voglio far conoscere a mio figliola terra che mi ha accolto quando anche l’ultima speranza sembrava avermi voltato le spalle.
Era una bella giornata, la prima da una settimana, di quelle che Palermo sa regalare anche in febbraio, il sole scaldava e io, risalendo da via Roma, me la stavo godendo quando uno schiamazzo di gente cominciò a scendere da via Cavour, mi tagliò la strada e cominciò a disperdersi, in parte risalendo e in parte discendendo la strada verso S. Domenico.
RispondiEliminaEro ormai giunto all’incrocio e guardando verso sinistra in mezzo alla folla urlante che scendeva vidi gente di tutti i tipi che sciamava verso il basso, c’erano bambini, ambulanti, ma anche un carabiniere in alta uniforme, uno dei due che fa la guardia alla banca d’Italia, pensai, era o sembrava il più veloce, correva tenendosi la sciaboletta piatta, perché non gli sbattesse addosso, non capivo da cosa fuggissero, d’un tratto mi accorsi di una forma verde che usciva dal portone della banca, si ergeva sulla folla con delle assurde fauci spalancate, man mano che usciva in strada si alzava sempre più, si ergeva sulla folla e si! Cresceva, cresceva, diventava sempre più grande, poi, di colpo, con un suono sordo, una specie di flop ad alta intensità scoppiò inondando di una marea verde la folla che fuggiva, una specie di vomito che mi mancò per un pelo e il verme non c’era più.
La gente cominciò a girarsi a rallentare, un silenzio strano sostituì lo schiamazzo di prima un rallenty cinematografico. Pensai, non ci crederà nessuno quando lo racconterò .
Benché fossi anch'io preso dall'agitazione, una cosa l'avevo notata: mentre tutti scappavano, c'erano due uomini che si avvicinavano allo strano bestione. Avevano un turbante, sembravano indiani. Uno di loro aveva dei lunghi capelli biondi, però. E due occhi che non avevo mai visto prima. Fermi, da re. Di chi sa qualcosa in più e per questo non potrà mai avere paura.
RispondiEliminaMa si deve continuare con la storia precedente? Io ne ho scritta una nuova...
RispondiEliminaRajani e il suo fedele servitore Padmaj se ne andarono con fare che non ammetteva repliche da parte dei contadini. Quell'anno i raccolti di riso e grano erano stati distrutti dall'inondazione del fiume Ravi e i contadini non potevano reintegrare le scorte del maharajà Rajani. D'altra parte non era colpa loro se le piogge erano cadute più abbondanti, il fiume si era ingrossato e staripando, aveva sommerso tutto rendendo le piante inutilizzabili. Ma Rajani era un principe capriccioso, già il fatto che si tingesse i capelli biondi come se fosse un occidentale la diceva lunga sulla sua stravaganza, e doveva trovare un capro espiatorio per quanto era successo. Lui non avrebbe avuto scorte sufficienti per i suoi opulenti festini, ma i contadini non avrebbero avuto nemmeno il minimo indispensabile per la sopravvivenza. Come se non fossero bastate le inondazioni, alcuni raccolti che erano stati salvati con grande fatica dall'acqua, erano stati poi danneggiati ulteriormente dall'eccessiva proliferazione del bruco verde delle risaie che si era nutrito delle giovani piante, una vera catastrofe. Quell'inverno avrebbero dovuto tirare la cinghia, pensava con desolazione uno dei contadini; di certo non si sarebbe potuto permettere di comprare un berretto nuovo per suo figlio e probabilmente quello verde che il bambino si era guadagnato lavorando nei campi, sarebbe stato venduto per racimolare qualche spicciolo. L'improvvisa carestia inoltre alimentò la diffusione dei briganti, persone disperate disposte a tutto, anche a uccidere per rubare qualcosa da mangiare. E avevano poco da fare i gendarmi con i loro fucili sotto braccio per ripristinare una parvenza di ordine; molto spesso vendevano anche le proprie armi ai briganti stessi, favorendo quindi le loro scorribande.
RispondiEliminaIl maharajà Rajani, invece di intervenire per risolvere i problemi dei contadini e dei briganti, stava rinchiuso nell'enorme e lussuoso palazzo della sua famiglia dove poteva essere sicuro che non gli sarebbe mancato nulla, se non l'affetto e la stima del suo popolo
@Salvatore, Yorick e Pirsimona (E TUTTI): le vostre storie sono molto belle. Se ne avete voglia, continuate pure, alternandovi, o aggiungendo altri frammenti, senza attendere necessariamente il contributo di altri scrittori. GRAZIE!
RispondiEliminaIl racconto di Pirsimona è STRE-PI-TO-SO! Bravi tutti, continuate a deliziarmi con le vostre parole, ve ne sarò grato:-)
RispondiEliminaProvo a raccontarlo, ma non sono certo di riuscire a portare alla memoria tutti i particolari... Le immagini sono avvolte da piccole gocce di nebbia che confondono i contorni delle cose e dei ricordi.
RispondiEliminaTutto inizia tanti anni fa. Mio padre è un povero contadino che ogni giorno si spezza la schiena nei campi. La sua vita è scandita dalla ritualità della semina. Non credo ci siano gioie rilevanti nella sua esistenza. Rilevanti dolori però, sì. La morte di mia madre mentre mi dava alla luce, per esempio, gli ha fatto perdere il colorito, il sorriso, la luce propria di un paio di occhi curiosi e intelligenti. Io sono biondo, somiglio tutto a lei, dice mio padre. Della mia infanzia ricordo le mura marce di casa e il pane con latte che mangiavo alla sera. Quando fui abbastanza grande da tenere in mano un sacco di grano, mio padre mi mandò a fare l'apprendista da un fabbro. Non era famoso, nè tantomeno ricco, ma era l'unico che aveva acconsentito a prendermi con sè. Non mi piaceva, ma ci andai ugualmente. Mai avrei dato un dispiacere a mio padre. Il fabbro era un omone grande e grosso, aveva un naso enorme che gli stravolgeva il volto, peli ispidi e neri sul volto, capelli sempre nascosti da un grande cappello a falde larghe. Tutto in lui incuteva timore, c’era qualcosa di cattivo in quelle due fessure piazzate sotto la fronte che mi guardavano con estraneità. A novembre mi trasferii nella sua bottega, a dicembre volevo già scappare. A mio padre non dicevo nulla, ma quell’energumeno somigliava sempre di più ad uno di quei mostri verdi che sognavo da bambino quando la sera arrivava il momento di spegnere la lampada ad olio. Era cattivo con me. Lavoravo più di quanto dovessi fare, e la sera, nonostante fossi stremato, mi costringeva a star sveglio fin quando lui non cadeva addormentato. Sapevo che quel burbero scontroso attaccava briga con tutti, ma mai avrei immaginato che qualcuno potesse ucciderlo. Così una mattina di marzo tornai alla bottega dopo avere fatto alcune consegne, e lo trovai stramazzato al suolo, immobile e coperto di sangue.
Un urlo si strozzò in gola. Mi tappai subito la bocca con entrambe le mani. Lo guardai immobile e indeciso sul da farsi, non mi ero accorto che entrando avevo lasciato la porta aperta su quella vista orrenda. Passò un carabiniere, affacciò la testa oltre l’uscio, vide ciò che io stavo ancora guardando, e con un balzo fu dentro la bottega. Io fui più veloce però. Ancora oggi non so dire perché scappai, ma mi precipitai fuori dalla finestra mentre quello urlava di star fermo, di tornare indietro. Non so quanto vagai per le strade della città. Non volevo tornare indietro e non volevo andare neppure da mio padre: pensavo che lo avrei messo nei guai. Chissà cosa gli avevano raccontato… Non volevo neanche pensarci. Vissi di ciò che trovavo per strada e vagabondai senza meta diversi giorni prima di arrivare al porto.
RispondiEliminaIl mare. Era bellissimo.
Grande, talmente grande da sembrare infinito. Ero così stanco che mi fermai sul molo, trovai un angolo riparato e mi addormentai.
Non so quante ore restai incosciente, ma so che al risveglio mi trovai immerso in una penombra arancione… Avvolto da un brusio straniero e da profumi sconosciuti. Qualcuno si accorse del mio risveglio perché improvvisamente vi fu silenzio e vidi due ombre avvicinarsi . Un uomo avvolto in una tunica porpora ed un altro fasciato da un mantello blu si avvicinarono rivolgendomi uno sguardo di amichevole compassione. Fui scosso da un tremito di paura. Mai avevo visto due uomini di carnagione tanto scura. In paese avevano parlato di stranieri invasori, crudeli, che mozzavano le teste con una facilità che non poteva essere proppria degli uomini rimorati di Dio.
RispondiEliminaIniziai a tremare ed urlai così forte che tutti, nella stanza, premettero le mani sulle orecchie. Tutti tranne Amil e Talish che continuarono a guardarmi coi loro occhi imperturbabili.
- Non temere, non vogliamo farti del male, da oggi noi penseremo a te.-
-COME???? PERCHE’???? Chi siete??? Che volete? Le conosco le storie su di voi… Cosa volete farmi??? Voglio andare via di qui!!!- Provai a muovermi, ma ero talmente stanco che non riuscii ad imporre il mio volere alle gambe. Fui preso dallo sconforto. Eravamo in viaggio, dove stavamo andando? -Lo scoprirai- dissero. -Adesso riposa. – Mi rassegnai. A meno che non avessi deciso di trascinarmi sul ponte e buttarmi in mare, mai sarei sfuggito a quei due.
Evidentemente ero davvero molto stanco, perché dormii ancora un giorno intero, come poi mi dissero. Chissà dove stavamo andando, chissà cosa avrebbero fatto di me.
Viaggiammo in silenzio, studiandoci reciprocamente… Forse non erano così cattivi come pensavo.
Giorno dopo giorno sentivo tornare le forze. Iniziai a smettere di avere paura. Mi avevano proposto di impegnare le giornate imparando a leggere e a contare, e l’idea aveva stuzzicato la mia curiosità. E poi, dovevo pur impegnare quelle interminabili giornate in nave!
RispondiEliminaOggi giorno mi insegnavano una cosa nuova: ero sveglio e attento, apprendevo in fretta il significato di quelle parole scritte sui libri e in poche settimane riuscii a fare addizioni e sottrazioni. Mi raccontavano del loro paese, di animali mai visti, di cose che pensavo neppure esistessero. Era bello parlare con loro, ma pensavo sempre a mio padre. Chissà cosa faceva, come stava… Chissà cosa pensava di me.
Una mattina uscii sul ponte: guardavo la schiuma bianca lasciata dalla nave e mi perdevo nei ricordi. Seguendo la loro scia mi voltai e mi accorsi della presenza di Amil. Non lo avevo sentito arrivare. Mi incuriosiva molto, Amil. Non toglieva mai il turbante blu da cui scivolavano biondi i suoi capelli. Era sempre silenzioso, sembrava fluttuasse sulle nuvole che ogni giorno si fermava a contemplare. Lo scrutai a lungo, indeciso sul da farsi. Risolse lui il mio dubbio: si voltò, mi sorrise mostrandomi i suoi denti madreperla e andò via.
Arrivammo dopo molte settimane. Scendemmo e fummo accolti con feste ed onori. Fui condotto in un palazzo sontuoso, pieno di ninnoli che brillavano colpiti dai raggi del sole. Restai abbagliato da tutta quella luce.
Mi mostrarono la mia nuova casa: avrei vissuto con Janira, la sorella di Amil. Ogni giorno Amil e Talish mi insegnavano qualcosa di nuovo. Diventavo ogni giorno più forte e sapiente. Non c’era più traccia della paura provata la prima volta che vidi Amil e Talish. Non erano cattivi, non volevano farmi del male. Si dedicavano a me con cura e abnegazione senza chiedere nulla in cambio. Ogni giorno mi regalavano un affetto che pensavo di non meritare. Una sera, davanti una tazza di the nero, chiesi a Janira perché avessero scelto me. PERCHE’? Lei rispose che non c’era un motivo. Mi avevano trovato sul molo: abbandonato, solo, col volto rigato di lacrime. Semplicemente non potevano lasciare un bambino morire così, di freddo, solitudine e disperazione. Avevano avuto pietà di me. E mi avevano salvato da chissà quale avvenire.
RispondiEliminaAvevo tutto, ma non ero felice.
Le mie notti erano agitate da mostri verdi che mi tormentavano e, nonostante nascondessi la testa sotto quel cuscino che odorava di spezie, mi sembrava di sentire i lamenti strazianti di mio padre che stava morendo di dispiacere per la mia scomparsa. Tentavo di nascondere a Amil e Talish il mio malessere, ma loro avevano capito tutto. Capivano sempre tutto, loro. Così una sera mi chiamarono nella stanza dei tappeti e mi dissero che mi avrebbero riportato a casa. Mi colsero di sorpresa e nel mio animo presero a battagliare gioia e dolore. Vinse il desiderio di riabbracciare mio padre. Avevo un disperato desiderio di sentire ancora cingermi dalle sue braccia. Certo, non avrebbe più ritrovato le esili spalle che stringeva quando alla sera sentivo freddo, adesso ero un ragazzo robusto e forte, ma ero certa che ci saremmo riconosciuti.
Feci i bagagli. Amil, Talish e Janira organizzarono una festa in mio onore.
RispondiEliminaMangiammo e bevemmo tra le risate e le lacrime. Quando tutti andarono via i miei amici, la mia famiglia per quegli anni, mi strinsero forte e pronunciarono un ADDIO in un sospiro. Piansi tutta la notte, e la mattina successiva non trovai nessuno in casa. C’era solo un uomo che, come scoprii presto, avrebbe dovuto accompagnarmi al porto.
L’autista mi salutò con una stretta di mano, abbassò lo sguardo e andò via. Io salii e viaggiai per così tanti giorni che neppure li contai. Lessi, ricordai e pensai. Mai avrei dimenticato Amil e Talish. Mi avevano da una salvato, forse anche da me stesso. Avrebbero avuto sempre un posto speciale nel mio cuore.
Arrivai in una mattina grigia e ventosa, sbarcai con una valigia che odorava ancora di profumi lontani. Niente sembrava essere cambiato. Forse in paese il tempo si era fermato. Per qualche minuto ho sperato davvero che fosse così… E se mio padre fosse.. NO. Non dovevo neppure pensarci. Iniziai a camminare verso quella che un tempo era la mia casa. La trovai uguale. Forse con più crepe, ma era lei.
RispondiEliminaBussai.
Nulla.
Bussai ancora più forte.
Nulla.
Lasciai andare la valigia e presi a battere entrambi i palmi sul legno ormai marcio. Sentii dei passi trascinarsi lentamente verso la porta che si aprì improvvisamente. Dietro apparve un viso scavato dalla tristezza e dal dolore. Non so cosa accadde, forse mio padre mi riconobbe prima che io potessi muovermi, perché in un attimo mi ritrovai stretto a lui, sciolti entrambi in un lungo pianto consolatorio.
Ci vollero molti giorni perché gli raccontassi tutto. Lui mi disse che poco dopo la mia scomparsa avevano trovato l’assassino del fabbro, e che lui mai aveva smesso di cercarmi, che a volte, nel cuore della notte, sentiva il mio pianto di nostalgia.
Oggi mio padre non c’è più. Io ricordo quei anni in maniera confusa, a volte penso sia stato tutto un sogno, altre credo di inserire dettagli di fantasia nei miei ricordi.
Non ho mai più visto Amil, Tashir e Jamira.
Stasera andrò a dormire presto. Domani sarà un lungo giorno. Parto. Vado in India. Voglio far conoscere a mio figliola terra che mi ha accolto quando anche l’ultima speranza sembrava avermi voltato le spalle.
Miiiiiiiiiiiiiii che sono stata prolissa!
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