martedì 29 giugno 2010

Elisabetta-Fedra


"Fedra" (Ippolito portatore di corona) di Euripide, nella traduzione rigorosissima e filologica di Edoardo Sanguineti, non è una tragedia di tutto riposo: per definizione le tragedie sono oltremodo impegnative. Accanto a me, a sinistra mia moglie quasi in apnea (come me, per non perdere una parola, un sussulto, un alito), a destra invece una brunetta occhialuta che è arrivata a sbuffare e a dire "Che palle!". L'ho odiata quanto basta, in silenzio. "Fedra" tesa, affilatissima ed anche ostica: al punto che gli spettatori eterogenei del Teatro Greco non sospettavano prima di pagare il biglietto. Poi, un discreto passaparola, ha fatto sì che la vulgata fosse in definitiva la dicotomia di giudizio: bella Aiace, difficile (ma si sprecano gli eufemismi) Fedra. Io ho assistito ad entrambe. Aiace è stata lava pura-incandescente fuoiruscita dal talento di Maurizio Donandoni, Fedra è stata il trionfo sofisticato e molto sofferto di Elisabetta Pozzi. L'Eros malato (sempre per i capricci dei dispettosi demoni: gli dei secondo il grande Sanguineti) che cede il posto a Thanatos attraverso tutte le parole che il poeta di recente scomparso ha raccolto come sassi, talvolta come macigni. L'amore e i sensi cristallizzati nella roccia. Una roccia dura, intrisa di sentimenti da osservare e talvolta da decriptare. La Pozzi, secondo me (ma sono in buonissima compagnia in questo giudizio) è la più grande attrice teatrale in Italia. Almovodar, il grande regista spagnolo, l'ha chiamata per il suo film: sarà una madre. Brava, Elisabetta, bravissima!

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