Amour fou
L’amour fou. Che per me, da picciriddo, aveva un suono
strano, tipo amor fu. Il francese era misterioso come l’arabo. Poi però capii:
l’amor fu. Non c’è più, se ne andò. Avrò avuto non più di cinque o sei anni,
erano i primi anni sessanta, l’estate bollente in una traversa del corso
Olivuzza. Ni ente ventilatore: roba di lusso. E l’aria era condizionata da un caldo acquoso. Il cuscino era una morbida
pozzanghera calda e la canottiera era ammargiata di sudore innocente. Afrore,
profumo di zagara o di gelsomino. O tutti e due. Ma di botto scoppia un suono
metallico e fragoroso. Uno sparo. Tutti svegli, tutti sudati, tutti in piedi. Tutti
zitti. Addirittura un altro sparo. Ma prima urla strazianti. Bestemmie o brutte
parolacce. Tipo film. Odore di gelsomino e polvere da sparo. Mamma e papà
guardano dalle fessure delle grate e mi tengono lontano. Io però sono dietro e
vedo i lampi bluastri e l’ululato delle sirene e il rombo del motore delle
macchine. Un misto di botti, grida, profumo di zagara, puzza di spari, polizia,
canottiere e sudore freddo. Delitto passionale. Boh, che significa? Ma io
qualcosa l’avevo capito anche se ero timido. Prima, dal mio balcone, li avevo
visti anche se una tenda li nascondeva un po’. Lottavano con le bocche e con le
lingue e si aggrappavano l’uno all’altra. Che schifo. Però un po’ mi piaceva.
Era l’amour fou.
Io preferisco l’amor è. E l’amor che sarà. Quello della ma
femme e del mio petit Miki che mi abbraccia e mi bacia finanche.
Pubblicato nel blog A(b)Braccio di Daniela Tornatore il primo giugno.
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