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giovedì 19 febbraio 2015
martedì 17 febbraio 2015
domenica 15 febbraio 2015
sabato 14 febbraio 2015
Rapsodia palermitana
RAPSODIA PALERMITANA
Marcello Benfante
Marcello Benfante
Non occorre scomodare i sistemi filosofici per affermare che l’immagine in sé non esiste, che essa dipende dallo sguardo.
La tesi, in tempi come i nostri di estremo relativismo, non ha bisogno infatti di essere dimostrata, e mi pare addirittura che possa essere condivisa anche dai più intransigenti realisti.
Indipendentemente dall’oggettività del mondo, effettiva o presunta che sia, l’immagine è comunque soggettiva, non fosse altro per ragioni di angolazione e di scelta, ossia di condizione o situazione e di volontà.
Per non dire che, etimologicamente, essa pertiene alla fantasia e dunque al sogno e perfino alla magia.
Come ogni altra immagine, anche quella di una città può discostarsi dal vero (ammesso che il “vero” esista). Può addirittura sostituirsi al vero. O può essere, più semplicemente, una forma del vero.
L’immagine che Palermo ha avuto di se stessa, per esempio, raramente è stata una raffigurazione obiettiva. La città, per lo più, ha amato rappresentarsi ricorrendo a una trasfigurazione mitologica e nei modi di un’epopea splendente e, per l’appunto, immaginifica.
D’altra parte, non solo il mito o la cosiddetta leggenda metropolitana, ma anche l’autopercezione collettiva e l’autodefinizione corale fanno parte a pieno titolo dell’effettiva consistenza e sussistenza di una città. La quale è fatta di simboli e fantasmagorie non meno che di fabbricati e rapporti sociali.
L’orlandismo, per esempio, ha rivendicato (a torto e a ragione) la fattività e la produttività di una politica basata anche sull’immagine. Non solo o non tanto perché l’immagine è riflesso di qualcosa di pre-esistente che la proietta, ma soprattutto perché essa stessa, a sua volta, determina processi di trasformazione, si rivela una prassi che cambia il mondo circostante.
D’altronde, viviamo in una civiltà dell’immagine, in una società che tende a sostituire la realtà con un suo duplicato mediatico.
L’immagine, dunque, presenta sempre una certa doppiezza: è ombra, simulacro, emblema, finzione, miraggio. Da qui la sua ambiguità: è insieme falsa e vera, apparente e al tempo stesso rivelatrice di un’essenza profonda e perfino più autentica.
Ne deriva una difficoltà di decifrazione. Tanto più l’immagine è immediata e tanto più essa si presta a una molteplicità di interpretazioni. Tanto più è palese e tanto più appare criptica, ineffabile, irrisolvibile in modo unilaterale. Ogni raffigurazione è potenzialmente plurima. È un sistema che scatena puntualmente un Rashomon, un così è se vi pare.
Rispetto alla parola, l’immagine è assai più diretta, ma questa sua velocità di percezione si traduce subito dopo in un’inquietante enigmaticità.
Prendiamo, ad esempio, la Palermo disegnata da Gianni Allegra nelle sue vignette: essa è subito riconoscibile grazie a una tipologia di semplici icone, talvolta appena accennate. Una palma o una stilizzazione estrema di cupole arabo-normanne sono in genere sufficienti a stabilire una localizzazione precisa e inequivocabile.
Allegra ricorre poi a una serie di elementi caratterizzanti: l’immondizia, i ruderi, una certa edilizia popolare e periferica, il groviglio del traffico automobilistico, uno skyline caotico e ammassato, un’umanità marginale.
Si tratta di elementi che Palermo condivide con molte altre città, non solo meridionali e non solo italiane. Tuttavia, con poche linee la città è facilmente identificabile. Allegra opera per sottrazioni, per allusioni, per accenni. Oppure per personalissimi campionari, come i topi umanoidi di una recente produzione non solo satirica.
Anche nella sua pittura o nelle sue illustrazioni troviamo analoghe sintesi, sebbene qui all’icasticità dello schizzo e all’uso sardonico della sineddoche si sostituisca la suggestione cromatica o talvolta un’accurata composizione figurativa.
L’immagine che Allegra ci offre di Palermo rimane sempre laconica, pur nella sua precisione sociologica e antropologica. E soprattutto rimane ambivalente. C’è sempre qualcosa, un dettaglio, un guizzo di colore, un dinamismo, che disorienta, sconcerta, fuorvia.
Si veda per esempio il dipinto “L’aggressione” con cui si apre il volumetto Scorci e squarci e che con opportuna scelta è stato riprodotto sull’invito della mostra omonima.
L’immagine sembra caratterizzata da un elementare dualismo: da un lato una scena di violenza, con un aggressore e un aggredito, dall’altro una coppia di amanti, nudi e abbracciati. Come dire, eros e thanatos. Una contrapposizione antichissima e viscerale.
Da un punto di vista narrativo, tutto sembrerebbe chiarissimo. La donna guarda il suo compagno, interamente presa dalla relazione sentimentale. Lui, invece, intravede di sbieco un uomo che sta per accoltellarne un altro.
La vittima non pare in grado di opporre resistenza. Possiamo già immaginare che soccomberà. È il terribile istante che precede il delitto. E tuttavia possiamo pure sperare che i fatti prendano fortunosamente un’altra piega. In questa sospensione temporale avvertiamo già l’insinuarsi di una vaga incertezza, l’aprirsi di una crepa nel granitico universo del probabile.
Ma non è tanto la possibilità di un esito diverso della colluttazione a lasciare interdetti il nostro sguardo e la nostra immaginazione.
È assai più controverso l’atteggiamento dell’uomo e della donna. È solo lui che si è accorto dell’aggressione, mentre lei è intenta ad abbracciarlo? Oppure anche la donna ha visto ciò che sta accadendo, ma ha deciso di distogliere lo sguardo, di rendersi cieca al mondo esterno, a quella violenza così diversa dal suo amore.
E se la donna non vuole vedere, è per codardia, per omertà, per egoismo o addirittura per complicità? Non è escluso che la donna, chiamandolo a sé, stia cercando di distrarre l’amante, di sottrarlo a un dovere civile e morale di testimonianza e di intervento.
Il quadro diventa così un palinsesto di potenziali racconti. Da solo avrebbe potuto soddisfare la ricerca di indizi dei dieci autori chiamati in correità a dipanare i misteri nascosti nella pittura di Allegra.
La situazione iniziale è stata modificata, virtualmente, da una serie di congetture tutte abbastanza plausibili. Ma a questo punto subentra un livello esegetico più complesso. La nudità degli amanti vuole sottolineare il loro essere inermi di fronte alla violenza che si scatena a poca distanza? O vuole fare risaltare, per contrapposizione, la loro purezza? A livello simbolico, rappresentano forse la coppia biblica per antonomasia, i nuovi Adamo ed Eva?
Queste chiavi interpretative non possono essere facilmente escluse o eluse. E tuttavia si aprono ancora nuove possibilità. E se l’immagine dell’aggressione fosse soltanto un quadro nel quadro, come una sorta di escheriana mise en abyme? Se l’uomo fosse il pittore che ancora si attarda a riconsiderare la sua opera mentre la compagna lo invita e trascina all’amore?
Il riquadro dove si consuma e raffigura la scena dell’accoltellamento, nella sua elementare conformazione priva di prospettiva, potrebbe essere una finestra, ma anche una tela appesa alla parete blu.
A questo punto non siamo più sicuri di quello che vediamo, di ciò che credevamo di aver visto. Non possiamo neppure stabilire con assoluta certezza che l’uomo armato di coltello stia per commettere un omicidio. Potrebbe trattarsi di uno scherzo oppure le parti potrebbero invertirsi: come escludere categoricamente che l’arma sia stata sottratta all’aggressore nel corso di una lotta e poi rivolta contro di lui?
Come in quel serratissimo film di Sidney Lumet che s’intitola La parola ai giurati, ogni nostra impressione o supposizione basata su un’apparente ovvietà può essere smantellata da induzioni e deduzioni che riorganizzano l’immagine, la prova, secondo svariate possibilità di sviluppo diegetico.
Ecco dunque che un quadro di essenziale strutturazione si è rivelato un’opera aperta ed estremamente complessa.
Il motivo dell’accoltellamento torna in un altro quadro: “Il balcone”. Stavolta però i testimoni siamo direttamente noi. Dall’esterno del quadro scorgiamo quel che accade all’interno di una casa. I duellanti, a torso nudo, emergono dal buio di una stanza, forse come fantasmatiche apparizioni che rievocano un dolore lontano nel tempo, ma inestinguibile. La donna e il bambino sul balcone, ignari, danno le spalle a questa scena di lotta che è quasi la stessa di quella precedente (quello che si presume sia l’aggressore vibra la lama dall’alto verso il basso con la mano destra, mentre l’avversario, a sinistra, si mostra stavolta più combattivo, sebbene non in grado di parare la pugnalata).
Cosa stanno guardando la madre e il figlio? Ammesso che siano davvero questi i rapporti che legano i due personaggi. Possibile che non si accorgano di nulla? Che non sentano nulla? È immaginabile che una lotta così accanita si svolga nel più assoluto silenzio?
A limite, è lecito presumere che la musica proveniente dalla strada (dabbasso c’è un cantante, accompagnato da un chitarrista, che forse si esibisce a una festa rionale) riesca a coprire grida o gemiti o invocazioni d’aiuto.
Notiamo che la nudità stavolta attiene ai violenti. Sono dunque amanti? La loro è una relazione omosessuale? Infatti, sebbene l’immagine non sia chiarissima, sembrerebbe trattarsi di due uomini.
Ebbene, anche stavolta ci troviamo di fronte a una ridda di ipotesi. Che il tema del coltello ritorni due volte non è un particolare trascurabile, anche a voler tralasciare troppo scontate simbologie falliche. La lama ha il precipuo potere di squarciare (si pensi all’occhio tagliato di una celeberrima sequenza di Luis Buñuel).
Nel primo caso, però, l’aggressione è intravista, ancorché di tralice, mentre la seconda volta essa avviene sullo sfondo e solo il fruitore della mostra (o il lettore), l’osservatore posto al di fuori del quadro, può scorgerla.
I personaggi affacciati sul balcone guardano altrove. Non si sa cosa. Certamente non noi, ché la direzione dello sguardo è orientata alla nostra sinistra e sembra smarrirsi in un punto imprecisato.
Nulla ci vieta di supporre che la signora dai larghi fianchi e il bambino che fa capolino dall’inferriata stiano vedendo qualcosa che è in relazione con l’aggressione e che ne spiega il motivo o, per meglio dire, il movente.
In un altro quadro che s’intitola “Nascondino” abbiamo invece un intrecciarsi di sguardi tutti rivolti in direzioni diverse. Chi si nasconde è forse il ragazzo che sbircia dietro l’angolo? O forse costui spia qualcuno che cerca di occultarsi?
Ancora una volta Allegra gioca con una vasta gamma di possibili varianti, lasciandoci nel dubbio e dunque nella piena libertà di optare per una soluzione o per un’altra affatto diversa.
Le dieci tele formano una sorta di continuum. Sono infatti unificate da un comune denominatore. O meglio, da un fil rouge. Infatti, vi ricorre per ben sei volte la cravatta rossa. In quattro tele essa è indossata da un personaggio in abito scuro, che tre volte porta il cappello. In altre due circostanze la cravatta rossa è al collo di un giovane in camicia bianca e di un altro (ma potrebbe anche trattarsi della stessa persona) in camicia gialla che impugna una pistola.
La scelta di far rimbalzare questi elementi da un quadro all’altro, instaurando un sistema di rimandi interni, crea una dimensione narrativa che si caratterizza per un’atmosfera da spy-story.
L’immagine di Palermo che emerge da questa scansione pittorica è quella di una città di misteri teatrali e di furibonde violenze. Un affresco al nero, insomma, nonostante l’accendersi dei forti e vivaci colori.
Salta agli occhi anche una componente sensuale, un erotismo ostentato, pervasivo, ammiccante. È una Palermo di amori mercenari, clandestini, irregolari quella che Allegra propone in queste sue opere che esaltano la sinuosità e la pienezza del corpo femminile. Una Palermo prostituita e stuprata, anche. Ma poi d’improvviso esplode una gioiosità festosa. E i bambini, spettatori inconsapevoli e innocenti di una violenza che li circonda e li insidia, guadagnano i tetti con giochi liberatori.
Non una sola immagine, quindi, ma un intrico di suggestioni diversissime e talvolta contraddittorie che scardinano stereotipi e pregiudizi offrendo un vertiginoso caleidoscopio di repertori.
Cosicché, più che un pittore che si confronta con dieci scrittori, abbiamo nella smaliziata operazione di Scorci e squarci un narratore per immagini che dispiega una successione ritmica di trame in nuce, una piccola rapsodia palermitana che ancora conserva gelosamente più di un segreto.
La tesi, in tempi come i nostri di estremo relativismo, non ha bisogno infatti di essere dimostrata, e mi pare addirittura che possa essere condivisa anche dai più intransigenti realisti.
Indipendentemente dall’oggettività del mondo, effettiva o presunta che sia, l’immagine è comunque soggettiva, non fosse altro per ragioni di angolazione e di scelta, ossia di condizione o situazione e di volontà.
Per non dire che, etimologicamente, essa pertiene alla fantasia e dunque al sogno e perfino alla magia.
Come ogni altra immagine, anche quella di una città può discostarsi dal vero (ammesso che il “vero” esista). Può addirittura sostituirsi al vero. O può essere, più semplicemente, una forma del vero.
L’immagine che Palermo ha avuto di se stessa, per esempio, raramente è stata una raffigurazione obiettiva. La città, per lo più, ha amato rappresentarsi ricorrendo a una trasfigurazione mitologica e nei modi di un’epopea splendente e, per l’appunto, immaginifica.
D’altra parte, non solo il mito o la cosiddetta leggenda metropolitana, ma anche l’autopercezione collettiva e l’autodefinizione corale fanno parte a pieno titolo dell’effettiva consistenza e sussistenza di una città. La quale è fatta di simboli e fantasmagorie non meno che di fabbricati e rapporti sociali.
L’orlandismo, per esempio, ha rivendicato (a torto e a ragione) la fattività e la produttività di una politica basata anche sull’immagine. Non solo o non tanto perché l’immagine è riflesso di qualcosa di pre-esistente che la proietta, ma soprattutto perché essa stessa, a sua volta, determina processi di trasformazione, si rivela una prassi che cambia il mondo circostante.
D’altronde, viviamo in una civiltà dell’immagine, in una società che tende a sostituire la realtà con un suo duplicato mediatico.
L’immagine, dunque, presenta sempre una certa doppiezza: è ombra, simulacro, emblema, finzione, miraggio. Da qui la sua ambiguità: è insieme falsa e vera, apparente e al tempo stesso rivelatrice di un’essenza profonda e perfino più autentica.
Ne deriva una difficoltà di decifrazione. Tanto più l’immagine è immediata e tanto più essa si presta a una molteplicità di interpretazioni. Tanto più è palese e tanto più appare criptica, ineffabile, irrisolvibile in modo unilaterale. Ogni raffigurazione è potenzialmente plurima. È un sistema che scatena puntualmente un Rashomon, un così è se vi pare.
Rispetto alla parola, l’immagine è assai più diretta, ma questa sua velocità di percezione si traduce subito dopo in un’inquietante enigmaticità.
Prendiamo, ad esempio, la Palermo disegnata da Gianni Allegra nelle sue vignette: essa è subito riconoscibile grazie a una tipologia di semplici icone, talvolta appena accennate. Una palma o una stilizzazione estrema di cupole arabo-normanne sono in genere sufficienti a stabilire una localizzazione precisa e inequivocabile.
Allegra ricorre poi a una serie di elementi caratterizzanti: l’immondizia, i ruderi, una certa edilizia popolare e periferica, il groviglio del traffico automobilistico, uno skyline caotico e ammassato, un’umanità marginale.
Si tratta di elementi che Palermo condivide con molte altre città, non solo meridionali e non solo italiane. Tuttavia, con poche linee la città è facilmente identificabile. Allegra opera per sottrazioni, per allusioni, per accenni. Oppure per personalissimi campionari, come i topi umanoidi di una recente produzione non solo satirica.
Anche nella sua pittura o nelle sue illustrazioni troviamo analoghe sintesi, sebbene qui all’icasticità dello schizzo e all’uso sardonico della sineddoche si sostituisca la suggestione cromatica o talvolta un’accurata composizione figurativa.
L’immagine che Allegra ci offre di Palermo rimane sempre laconica, pur nella sua precisione sociologica e antropologica. E soprattutto rimane ambivalente. C’è sempre qualcosa, un dettaglio, un guizzo di colore, un dinamismo, che disorienta, sconcerta, fuorvia.
Si veda per esempio il dipinto “L’aggressione” con cui si apre il volumetto Scorci e squarci e che con opportuna scelta è stato riprodotto sull’invito della mostra omonima.
L’immagine sembra caratterizzata da un elementare dualismo: da un lato una scena di violenza, con un aggressore e un aggredito, dall’altro una coppia di amanti, nudi e abbracciati. Come dire, eros e thanatos. Una contrapposizione antichissima e viscerale.
Da un punto di vista narrativo, tutto sembrerebbe chiarissimo. La donna guarda il suo compagno, interamente presa dalla relazione sentimentale. Lui, invece, intravede di sbieco un uomo che sta per accoltellarne un altro.
La vittima non pare in grado di opporre resistenza. Possiamo già immaginare che soccomberà. È il terribile istante che precede il delitto. E tuttavia possiamo pure sperare che i fatti prendano fortunosamente un’altra piega. In questa sospensione temporale avvertiamo già l’insinuarsi di una vaga incertezza, l’aprirsi di una crepa nel granitico universo del probabile.
Ma non è tanto la possibilità di un esito diverso della colluttazione a lasciare interdetti il nostro sguardo e la nostra immaginazione.
È assai più controverso l’atteggiamento dell’uomo e della donna. È solo lui che si è accorto dell’aggressione, mentre lei è intenta ad abbracciarlo? Oppure anche la donna ha visto ciò che sta accadendo, ma ha deciso di distogliere lo sguardo, di rendersi cieca al mondo esterno, a quella violenza così diversa dal suo amore.
E se la donna non vuole vedere, è per codardia, per omertà, per egoismo o addirittura per complicità? Non è escluso che la donna, chiamandolo a sé, stia cercando di distrarre l’amante, di sottrarlo a un dovere civile e morale di testimonianza e di intervento.
Il quadro diventa così un palinsesto di potenziali racconti. Da solo avrebbe potuto soddisfare la ricerca di indizi dei dieci autori chiamati in correità a dipanare i misteri nascosti nella pittura di Allegra.
La situazione iniziale è stata modificata, virtualmente, da una serie di congetture tutte abbastanza plausibili. Ma a questo punto subentra un livello esegetico più complesso. La nudità degli amanti vuole sottolineare il loro essere inermi di fronte alla violenza che si scatena a poca distanza? O vuole fare risaltare, per contrapposizione, la loro purezza? A livello simbolico, rappresentano forse la coppia biblica per antonomasia, i nuovi Adamo ed Eva?
Queste chiavi interpretative non possono essere facilmente escluse o eluse. E tuttavia si aprono ancora nuove possibilità. E se l’immagine dell’aggressione fosse soltanto un quadro nel quadro, come una sorta di escheriana mise en abyme? Se l’uomo fosse il pittore che ancora si attarda a riconsiderare la sua opera mentre la compagna lo invita e trascina all’amore?
Il riquadro dove si consuma e raffigura la scena dell’accoltellamento, nella sua elementare conformazione priva di prospettiva, potrebbe essere una finestra, ma anche una tela appesa alla parete blu.
A questo punto non siamo più sicuri di quello che vediamo, di ciò che credevamo di aver visto. Non possiamo neppure stabilire con assoluta certezza che l’uomo armato di coltello stia per commettere un omicidio. Potrebbe trattarsi di uno scherzo oppure le parti potrebbero invertirsi: come escludere categoricamente che l’arma sia stata sottratta all’aggressore nel corso di una lotta e poi rivolta contro di lui?
Come in quel serratissimo film di Sidney Lumet che s’intitola La parola ai giurati, ogni nostra impressione o supposizione basata su un’apparente ovvietà può essere smantellata da induzioni e deduzioni che riorganizzano l’immagine, la prova, secondo svariate possibilità di sviluppo diegetico.
Ecco dunque che un quadro di essenziale strutturazione si è rivelato un’opera aperta ed estremamente complessa.
Il motivo dell’accoltellamento torna in un altro quadro: “Il balcone”. Stavolta però i testimoni siamo direttamente noi. Dall’esterno del quadro scorgiamo quel che accade all’interno di una casa. I duellanti, a torso nudo, emergono dal buio di una stanza, forse come fantasmatiche apparizioni che rievocano un dolore lontano nel tempo, ma inestinguibile. La donna e il bambino sul balcone, ignari, danno le spalle a questa scena di lotta che è quasi la stessa di quella precedente (quello che si presume sia l’aggressore vibra la lama dall’alto verso il basso con la mano destra, mentre l’avversario, a sinistra, si mostra stavolta più combattivo, sebbene non in grado di parare la pugnalata).
Cosa stanno guardando la madre e il figlio? Ammesso che siano davvero questi i rapporti che legano i due personaggi. Possibile che non si accorgano di nulla? Che non sentano nulla? È immaginabile che una lotta così accanita si svolga nel più assoluto silenzio?
A limite, è lecito presumere che la musica proveniente dalla strada (dabbasso c’è un cantante, accompagnato da un chitarrista, che forse si esibisce a una festa rionale) riesca a coprire grida o gemiti o invocazioni d’aiuto.
Notiamo che la nudità stavolta attiene ai violenti. Sono dunque amanti? La loro è una relazione omosessuale? Infatti, sebbene l’immagine non sia chiarissima, sembrerebbe trattarsi di due uomini.
Ebbene, anche stavolta ci troviamo di fronte a una ridda di ipotesi. Che il tema del coltello ritorni due volte non è un particolare trascurabile, anche a voler tralasciare troppo scontate simbologie falliche. La lama ha il precipuo potere di squarciare (si pensi all’occhio tagliato di una celeberrima sequenza di Luis Buñuel).
Nel primo caso, però, l’aggressione è intravista, ancorché di tralice, mentre la seconda volta essa avviene sullo sfondo e solo il fruitore della mostra (o il lettore), l’osservatore posto al di fuori del quadro, può scorgerla.
I personaggi affacciati sul balcone guardano altrove. Non si sa cosa. Certamente non noi, ché la direzione dello sguardo è orientata alla nostra sinistra e sembra smarrirsi in un punto imprecisato.
Nulla ci vieta di supporre che la signora dai larghi fianchi e il bambino che fa capolino dall’inferriata stiano vedendo qualcosa che è in relazione con l’aggressione e che ne spiega il motivo o, per meglio dire, il movente.
In un altro quadro che s’intitola “Nascondino” abbiamo invece un intrecciarsi di sguardi tutti rivolti in direzioni diverse. Chi si nasconde è forse il ragazzo che sbircia dietro l’angolo? O forse costui spia qualcuno che cerca di occultarsi?
Ancora una volta Allegra gioca con una vasta gamma di possibili varianti, lasciandoci nel dubbio e dunque nella piena libertà di optare per una soluzione o per un’altra affatto diversa.
Le dieci tele formano una sorta di continuum. Sono infatti unificate da un comune denominatore. O meglio, da un fil rouge. Infatti, vi ricorre per ben sei volte la cravatta rossa. In quattro tele essa è indossata da un personaggio in abito scuro, che tre volte porta il cappello. In altre due circostanze la cravatta rossa è al collo di un giovane in camicia bianca e di un altro (ma potrebbe anche trattarsi della stessa persona) in camicia gialla che impugna una pistola.
La scelta di far rimbalzare questi elementi da un quadro all’altro, instaurando un sistema di rimandi interni, crea una dimensione narrativa che si caratterizza per un’atmosfera da spy-story.
L’immagine di Palermo che emerge da questa scansione pittorica è quella di una città di misteri teatrali e di furibonde violenze. Un affresco al nero, insomma, nonostante l’accendersi dei forti e vivaci colori.
Salta agli occhi anche una componente sensuale, un erotismo ostentato, pervasivo, ammiccante. È una Palermo di amori mercenari, clandestini, irregolari quella che Allegra propone in queste sue opere che esaltano la sinuosità e la pienezza del corpo femminile. Una Palermo prostituita e stuprata, anche. Ma poi d’improvviso esplode una gioiosità festosa. E i bambini, spettatori inconsapevoli e innocenti di una violenza che li circonda e li insidia, guadagnano i tetti con giochi liberatori.
Non una sola immagine, quindi, ma un intrico di suggestioni diversissime e talvolta contraddittorie che scardinano stereotipi e pregiudizi offrendo un vertiginoso caleidoscopio di repertori.
Cosicché, più che un pittore che si confronta con dieci scrittori, abbiamo nella smaliziata operazione di Scorci e squarci un narratore per immagini che dispiega una successione ritmica di trame in nuce, una piccola rapsodia palermitana che ancora conserva gelosamente più di un segreto.
Luglio 2004.
venerdì 13 febbraio 2015
giovedì 12 febbraio 2015
lunedì 9 febbraio 2015
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domenica 1 febbraio 2015
Non mi piace l'apericena
Io da ragazzo, sempre di sinistra, muovendomi in un ambito "ortodosso" e piuttosto morigerato (Pci quasi sempre, Democrazia proletaria con un certo disagio, e finanche partito radicale nel momento di maggior veemenza pannelliana corroborata dalla sponsorizzazione di Sciascia) guardavo con sospetto e non capivo e non condividevo le scelte dei miei coetanei attratti da Servire il popolo, Potere operaio, Avanguardia operaia, Operai operai, Operaio e operaia e Piccoli operai crescono. Per questa mia scelta venivo emarginato e bollato come revisionista o addirittura socialdemocratico (allora essere etichettati come socialdemocratici era peggio che essere figli di puttana). Insomma, nell'immaginario di tutti i compagni ero un piccolo borghese aspirante artista ma lontano dagli operai e con poche speranze di fare sesso spinto con le ragazze-compagne-operaie. Il problema risiedeva proprio in questo dilemma: perché io volevo fare l'artista e gli altri si rompevano il culo per fare gli operai o per rappresentarli con grande passione? C'era anche un fatto prettamente estetico che a me non sfuggiva e che non mi difettava (disegno da sempre e guardo le cose per la loro bellezza-bruttezza con la lente astigmatica dell'arte). La maggior parte dei servitori del popolo operaio erano attraenti dal punto di vista sessuale ma non perché particolarmente belli e/o appetibili in quanto a ormoni superdotati: essi acchiappavano le ragazze in quanto maoisti-leninisti-castristi e mai stalinisti: dimenticavano, peccato, Gramsci. Sono passati numerosi lustri: resto di sinistra e tra mille difficoltà e miliardi di dubbi. Resto come allora un "ragazzo" del pci, dunque ormai "solo" un socialdemocratico: ora però lo sono felicemente. Lo ripeto per chi non volesse rileggere il pistolotto fin qui scritto: sono socialdemocratico. I miei amici operai-operai col culo al caldo hanno cambiato bandiera nel frattempo, parecchio tempo fa: e ci sono stati Casini, Forza Italia e robe di destra davvero imbarazzante. Poi ci sono quelli che pensano di avere ancora 16 anni: e non vogliono morire democristiani. Qualcuno dica loro che gli operai sono stati licenziati, che stanno più a cuore a me che non me ne sono mai occupato. Che quei mix imbevibili di alcol e coloranti finiranno per danneggiare ancor di più i loro poveri e sofferenti fegati. Fegati che si rodono per Mattarella: era meglio Che Guevara. Una t-shirt o due del bel rivoluzionario ce le ho pure io, le regalo a primi due che mostreranno 12 anni mentali e 85 nel fisico.
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